La solitudine dei numeri primi: Violetta Valéry fra successo e precarietà

Scenari inediti nati da un incontro tra una storica dell’arte e un’economista della cultura.

 

Francesca: La Traviata al Teatro Comunale di Bologna, adattamento contemporaneo di un’opera di metà Ottocento – nello specifico, una Violetta che da regina dei salotti parigini si trasforma in regina delle case d’asta. Funziona? Soprattutto me lo domando dalla tua prospettiva, perché sei tu a conoscere meglio il mondo delle arti visive. Che ne pensi dell’atmosfera?

Martina: Beh, è la seconda opera che vedo riadattata alla società contemporanea[1] e devo dire che il regista Andrea Bernard è stato capace di sprigionare in me tutti quei sentimenti, che in quanto ventiseienne, l’opera originale non avrebbe fatto emergere. Il fatto che fosse ambientata in una casa d’aste sicuramente ha avuto su di me un effetto amplificato, per l’accostamento alla mia realtà che mi ha davvero fatto riflettere sui miei valori e la mia integrità. L’atmosfera della casa d’aste è calzante e il mondo dell’arte è l’ambiente ideale dove si possono rappresentare sentimenti grandi e immortali, forti passioni, conflitti politici e/o generazionali.

F: Il mondo dell’arte è senz’altro quello che per eccellenza cerca di rappresentare i sentimenti umani, da millenni – questo è vero tanto per le arti dello spettacolo quanto per quelle visive. La casa d’asta però non è un mondo di valori assoluti, sottostà anzi alle logiche di mercato ma anche alle logiche “sociali”, quelle dei suoi facoltosi acquirenti. Mi incuriosisce infatti che tu abbia parlato di valori e integrità, perché in fondo questa Traviata tocca il tema con grande delicatezza: innanzitutto l’integrità di Violetta, che è dedita al lavoro in modo assoluto prima di incontrare Alfredo e che per lui sacrifica alla fine ogni cosa, anche il proprio successo. Sull’integrità degli altri personaggi invece avrei qualcosa da ridire, perché la società di Violetta l’abbandona, lasciandola morire sola dopo l’umiliazione in pubblico durante un’esposizione. Mi è sembrata una critica molto forte all’ipocrisia che orbita intorno a quel mondo.

M: Il mondo dell’arte è, o dovrebbe essere, romanticismo puro… va oltre il movimento storico, coglie ogni atteggiamento e aspetto connesso alle suggestioni e alle aspirazioni vaghe del sentimento, alle commozioni e agli incanti della fantasia. La casa d’aste, invece, è il luogo in cui l’evento dell’asta definisce il mercato dell’arte, condizionato da una società di collezionisti, che utilizzano i loro denari per acquistare un bene, che non è di prima necessità ma che serve per affermarsi socialmente: all’interno della sala nessuna offerta passa inosservata.

F: A questo proposito, mi è sembrato di notare come nessuna offerta “venale” passasse inosservata, mentre viene totalmente ignorata la richiesta di aiuto di Violetta: finché viene percepita come membro di una comunità che gioca secondo regole comuni (foss’anche frivole), è accolta e venerata; nel momento in cui viene pubblicamente vituperata ecco che tutti si allontanano. Mi sembra una metafora della precarietà dei rapporti lavorativi moderni, in cui tutti abbiamo paura di metterci a nudo, temendo che le nostre debolezze verranno sfruttate ai nostri danni – esattamente come succede a Violetta. Sei d’accordo?

M: L’integrità di Violetta è labile ed è immancabilmente messa a repentaglio da questo forte contrasto tra il mondo dell’arte e il mercato dell’arte, fino a che non arriva Alfredo, che con la sua semplicità morale e la sua schiettezza sentimentale le rapisce totalmente l’anima, lasciandola però a sua volta nell’umiliazione e nella solitudine, sentimenti contro cui Violetta aveva sempre combattuto.

F: È vero, Alfredo fin dall’inizio si pone quasi come l’alternativa al mondo sterile di Violetta. È semplice, diretto, non ha paura di mettersi a nudo con lei, e finisce col farla cedere. Alla fine, però, si rivela non meno spietato di quell’alta società da cui fingeva di voler allontanare Violetta. Mi è piaciuto che il regista lo dipingesse come un bambino viziato, che stringe i pugni e non è in grado di opporsi a suo padre. Ho trovato molto significativo il fatto che mentre Germont canta “Di Provenza il mare, il suol” Alfredo non sia presente in scena, è fuggito e al suo posto c’è un bambino: Germont crede di poterlo trattare come tale, e Alfredo, in fondo, glielo conferma. Violetta al contrario appare sempre come una donna forte nelle proprie decisioni professionali e sentimentali.

M: Oh, come lo ho odiato! Alfredo si fa davvero trattare come un bambino, permette a suo padre di decidere ancora per lui e nessuna azione gli è più fatale del non saper agire. Violetta appare invece come una donna intraprendente, seppur errante nella sua mondanità, agisce e non lascia nulla al caso, si muove con consapevolezza. Trasportandola nella società contemporanea, considererei Violetta, senza ombra di dubbio, al pari di quelle giovani donne che si ritrovano a dover scegliere tra il ruolo di donna in carriera e quello di donna amante.

F: Infatti è da questo punto di vista che l’ho trovata una regia particolarmente attuale: alla fine della storia, Alfredo si è solo beccato una strigliata in pubblico da parte degli astanti, ma ha una nuova donna, una reputazione borghese impeccabile, e ha ripristinato il rapporto col padre; a Violetta è toccata una gogna sociale perché la sua integrità le ha impedito di tutelarsi di fronte al sopruso di un uomo, il padre di Alfredo, più prestigioso e influente di lei. Nonostante l’origine ottocentesca dell’opera originale, riesce a essere una denuncia molto forte della difficoltà che la società sembra voler imporre alle donne che cercano un equilibrio fra vita pubblica e privata – e non certo per colpa loro, come ci dimostra quest’opera.

M: Sì, sono totalmente d’accordo con te. Alfredo ne esce disperato ma comunque con una seconda possibilità, Violetta invece ha donato tutta sé stessa in questa relazione e ha perso… ha perso i suoi ultimi momenti di vita ed è morta proprio sul punto di realizzarsi. Vedendo Alfredo incapace di aiutarla.

F: Non solo incapace, ma forse senza alcuna intenzione di aiutarla: cerca solo di sciacquarsi la coscienza assistendola negli ultimi attimi di vita. Una conclusione addirittura più amara di quella che abbiamo nel finale originale; e forse, per questo, più in grado di trasmettere un messaggio potente al pubblico contemporaneo.

[1] La prima è stata la “Bohème” messa in scena da Graham Vick, che ha guadagnato al Comunale il premio Abbiati per la migliore opere delle stagioni italiane.

(Visited 45 times)
Francesca Sabatini
Francesca, bibliomane, melomane, acquarellista e dottoranda (nonché, evidentemente, appassionata di suffissi impegnativi). Quando non è occupata dalla ricerca nell'ambito dell'economia della cultura prepara tagliatelle per gli amici all'ombra delle due torri. Come Kafka, aspira a ritagliarsi "un posticino pulito sulla terra, dove il sole brilli talvolta"