Una Pillola d’Arte al giorno toglie il Virus di torno

(Attenzione: non superare le dosi consigliate)

Il 9 Marzo 2020 la realtà ha superato la fantasia.

Siamo diventati prigionieri di una storia drammatica che ci è stata imposta, siamo stati obbligati a vivere e ad elaborare una forma di lutto individuale, personale e collettiva, che aveva come motore e regola, la forzata, e necessaria, separazione del genere umano.

Tutta Italia è entrata in lockdown, un anglismo, questo, al quale siamo ricorsi, forse per rendere meno aspra la nuova condizione di vita, un termine che ha contribuito alla creazione di un nuovo vocabolario pandemico, e che suona certamente meglio di isolamento.

Abbiamo vissuto una clausura dal sapore manzoniano, le nostre vite parevano sospese in una sorta di limbo pandemico e avvolte da un’aura emergenziale. Nulla sembrava più avere alcuna parvenza di normalità, e con lo spiazzamento delle nostre esistenze il virtuale ha sostituito il reale.

Nel mezzo del cammin della pandemia, l’artista Francesco Vezzoli, in esclusiva per Vanity Fair, ha realizzato una copertina omaggio al padre dello Spazialismo italiano, Lucio Fontana, e che però, rimanda inevitabilmente anche alla famosa serie di bandiere a stelle e strisce, dipinte ad encausto, opera dell’artista americano Jaspers Johns.

Jasper John, “Three Flags”, 1958

Quello che è non è quello che sembra.

Ciò che vediamo ritratto sulla copertina della rivista, non è infatti una bandiera italiana, bensì la rappresentazione pittorica di una bandiera italiana, attraverso la quale si percepiscono le maglie della tela e la consistenza dei colori ad olio.


Vezzoli, prendendo in prestito la serie dei Concetti Spaziali di Fontana, ci concede delle vie di fuga, e nel contempo ci invita a scoprire cosa si nasconde dietro quella lacerazione, presupposto tanto doloroso, quanto necessario, per un prossimo Rinascimento.


Mai come in questo preciso momento storico abbiamo avuto una percezione del tempo sconnessa, naturalmente sovvertita, non più lineare. Durante i giorni di costrizione domiciliare, privi di un preciso orizzonte temporale, abbiamo vissuto tutti lo stesso tempo con le stesse regole, nel tentativo di ristabilire e di rimettere in sesto il nostro equilibrio, da molto tempo ormai precario.


Non potendo vivere fuori abbiamo imparato a vivere dentro, ed essendo costretti a stare fermi fisicamente, abbiamo accolto quello che, solo successivamente, abbiamo capito essere uno dei privilegi che questo virus ci ha donato: la riflessione.


E’ profondamente radicata in me la convinzione che i musei abbiano qualcosa in comune con gli ospedali, a cominciare, ad esempio, dalla parola visita. Negli ospedali il medico visita il malato, nel museo a.C. (avanti il Coronavirus), il visitatore vi entra come se andasse a trovare persone a lui care dalle quali ricevere conforto; nel museo d.C. (durante il Coronavirus), a seguito della chiusura di tutti i luoghi della cultura, ha avuto inizio una vera e propria resistenza culturale, sfociata poi in una invasione digitale, con annesso rischio overdose.

Gran virtual tour, passeggiate con il direttore, flashmob fotografici, mostre in digitale, musei sociali, video pillole in streaming, sono tutti contenuti regalatici dai musei e che sono stati liberati dal contenitore nel quale vivono, per entrare nelle nostre case.


Mai come durante questi strange days, nei quali si sono viste cose che voi umani non potete neanche immaginare, si è parlato così tanto dei musei. Diffondendo una sconfinata mole di interventi virtuali, si è lasciato, però, poco spazio al silenzio e ad un raccoglimento volto alla costruzione di una relazione empatica, viscerale ed intima, anche e soprattutto in assenza dell’opera d’arte fisica.

Il museo a domicilio e a portata di smartphone, potrà funzionare soltanto se virtuale e reale si connetteranno, scambiandosi competenze e dando vita ad un dialogo capace di raggiungere anche i non addetti ai lavori.

È dunque ora di sfruttare gli aiuti fornitici dalla dimensione digitale, senza abusarne, né tanto meno farci anestetizzare da essa, al fine di diffondere l’idea di un museo fuori dal museo, con l’essere umano al centro di ogni cosa: una sorta di Umanesimo smART, nell’era del digitale.

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Maria Teresa Cafarelli
Maria Teresa Cafarelli è laureata in Storia dell'Arte a Roma e sogna di poter avere in casa sua una delle evocative frasi di Maurizio Nannucci. Affascinata dai colori e dalle luci fluorescenti emanate da tubi di vetro colorati e lampade al neon, dai tessuti a fiori e dall'anatomia preraffaellita, spesso si rifugia in un mondo magico e surreale illuminato da poesia concreta. Nel suo favoloso mondo pop mangia una scatoletta di zuppa Campbell insieme a Andy Warhol.