Che cos’è il Museo?

 

Il dado non è tratto, ai posteri l’ardua sentenza. Post lockdown siamo diventati tutti un po’ più riflessivi, o così sembrerebbe.Ci si riflette allo specchio per fare i conti con l’esperienza vissuta e fronteggiare i progetti per la seconda parte dell’anno che ci condurranno agli step da fare in quello prossimo.
Una costante altalena tra passato e futuro, per la quale il presente è un amico introverso.

Siamo costantemente proiettati al futuro. Da giorni circolano numerosi articoli in cui si parla di #museodelfuturo. Dinanzi a cotale espressione immagino una macchina futuristica, che viaggia nel cielo proiettando gli action painting di Pollock al posto dei fuochi di artificio.

Che cosa è il #museodelfuturo?

Sono mesi oramai, se non anni, che i rappresentanti del governo e gli addetti ai lavori ragionano sulle strategie per (ri)avviare le attività culturali, riaprire le porte di musei e di fondazioni, di teatri e cinema, sovvenzionare le emergenti organizzazioni per la cultura. Tutti settori quest’ultimi danneggiati pesantemente da una pandemia inaspettata che ha portato con sé, in un andamento sinusoidale, alte iniziative e bassi introiti.

La ripresa è lenta. Imperante, dunque, è la domanda che tutti si stanno ponendo: come ripartirà la cultura?

La realtà museo è chiamata anch’essa ad adottare nuove norme e ad adattare il proprio sistema a nuove esigenze. Il museo necessita oggi più che mai di una nuova collocazione che lo porti a ristabilire la propria connessione con la comunità locale. Questo bisogno è stato fortemente avvertito al tempo della quarantena dovuta al Covid-19. I musei di tutto il mondo, costretti a chiudere fisicamente le loro porte, hanno deciso di aprirsi al pubblico virtualmente. Caso particolare quello della National Gallery di Londra che ha fatto un salto in più.

The Nation’s Gallery is now on the nation’s streets è stato il nome dell’iniziativa del museo londinese, realizzata grazie al supporto di Ocean Outdoor, azienda specializzata in schermi digitali per esterni.

Per due settimane nelle strade delle principali città britanniche Birmingham, Edimburgo, Glasgow, Leeds, Londra, Manchester, Newcastle, Nottingham e Southampton sono state “esposte” su grandi schermi le sette opere più viste del museo londinese:

I Girasoli e Campo di grano con cipressi di Vincent van Gogh, Lo Stagno delle Ninfee di Claude MonetIl ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van EyckBagnanti ad Asnières di Georges SeuratAutoritratto con cappello di paglia di Élisabeth Vigée Le Brun e Sorpresa! di Henri Rousseau.

Un modo del tutto originale per ripensare il museo e in un certo qual modo anche la città. Da qui sorge una spontanea riflessione su come le opere d’arte possano intervenire in un contesto urbano, ripensato secondo i suoi stessi caratteri identitari. Questi dipinti costituiscono la storia di un museo, che è il documento di identità di un territorio, all’interno del quale una comunità intera riconosce il proprio senso di appartenenza nella storia narrata.

Ripercorrendo la storia del museo, il valore di civiltà e di identità risultano essere dei cardini fondamentali per la sua definizione.

Eppure alla domanda cos’è un Museo non vi è alcuna risposta immediata e semplice. Continua ad essere una open-ended question.

A tal proposito, Jette Sandahl, chair del Committee, porta avanti una tesi fondamentale: una definizione di museo è necessaria, perché i musei sono tanti e diversi, ed è quindi fondamentale che abbiano un framework al quale fare riferimento. Senza un core le variegate realtà museali si affaticherebbero nell’opera di esplicazione di funzioni e finalità.

La definizione di museo di cui attualmente disponiamo risulta essere alquanto anacronistica.

La nostra società è fluida, muta di continuo, a ritmi sorprendentemente rapidi; il museo è, quindi, chiamato ad essere pronto e a reagire. Dovrebbe poter scardinare dei meccanismi stantii ed attivare nuovi ingranaggi. Vorrei però fare un piccolo pit-stop, riprendendo questi aspetti in seguito. A me piace l’altalena. Ritengo che per ragionare sul futuro bisogna in un certo qual modo guardare indietro per osservare i passi fatti, le strade percorse e le soluzioni trovate.

Il Museo ha vita antichissima e vorrei ripercorrerne le tappe fondamentali per giungere al tempo corrente.

La parola “museo” deriva dal greco museion, vale a dire “tempio delle Muse”, personaggi della mitologia greca. Le Muse erano nove ed erano le figlie di Mnemosine, dea della memoria, e di Zeus, padre degli dei e dio della sapienza. Il primo luogo al mondo ad essere chiamato Museo sorge ad Alessandria d’Egitto, per opera del re Tolomeo I nel III secolo a.C. Trattasi di un luogo di culto, consacrato alle Muse, dove una comunità di sapienti, scienziati e letterati del tempo, soleva trascorrere le giornate e svolgere le proprie attività, studiando e discutendo proprio come nei dibattiti odierni.

Il primo vero museo, così come lo intendiamo oggi, nasce a Roma ed è il prodotto di una lunga storia. Papa Sisto IV nel 1471 faceva solennemente dono al Popolo Romano di quattro celeberrime sculture in bronzo – la Lupa, lo Spinario, il Camillo e la testa colossale di Costantino con la mano e il globo – sino a quel momento situate davanti a san Giovanni in Laterano, simbolo di un passaggio tra la Roma imperiale e quella dei Papi.

Quella che viene ricordata come la “restituzione” di Sisto IV costituisce l’atto di nascita delle collezioni capitoline, le quali saranno trasformate nel Museo Capitolino qualche secolo più avanti, nel 1734, per volontà di papa Clemente XII. Winckelmann ci ricorda che ai Musei Capitolini l’accesso era libero dalla mattina alla sera. Questa rappresentava un’eccezione. Le meraviglie dei musei erano sì aperte al pubblico ma con precise disposizioni, dettate da una sottile strategia propagandistica. Il granduca di Firenze, rivolgendosi ai curatori, dichiarava “a chi vuol verle siano cortesi”.

Il Museo Pio-Clementino non era aperto al pubblico ma facilmente accessibile per coloro che intendessero visitarlo, come ricorda Goethe, protagonista di una visita al lume di fiaccole. Il British Museum – benché pubblico – aveva l’ingresso limitato e a pagamento; il Palais du Luxmbourg era aperto sei ore alla settimana, la galleria dell’Hofgarten a Monaco era aperta tutti i giorni ma solo tre ore al mattino e tre al pomeriggio, il Belvedere di Vienna tre giorni alla settimana per “chiunque avesse le scarpe pulite”. Queste ed altre istituzioni culturali europee dovranno attendere la Rivoluzione francese per poter ricoprire il ruolo di istituzioni votate alla “pubblica utilità”. A quel tempo la “pubblica utilità” era considerata un caposaldo delle funzioni museali. Il Museo aperto al pubblico doveva essere al servizio e a disposizione dell’intera comunità. Tale concetto ormai storicizzato caratterizza l’opinione comune dei vertici protagonisti dell’odierno dibattito su cosa il Museo rappresenti oggi.

Il festoso e animato “Gabinetto delle meraviglie” di Bruegel il Vecchio, una stanza che ospita una mirabile collezione di oggetti belli preziosi dipinti e stravaganze, rappresenta l’allegoria della vista e in certo qual modo dell’atto del vedere, che si apre alle molteplici possibilità.
È un quadro senza cornice, senza limite, sottende libere interpretazioni e curiosa ricerca.

Chiedersi cos’è un Museo non può, dunque, condurre ad una risposta univoca, o quantomeno ad una definizione universale, che ancora oggi non mette d’accordo tutti.

Antonio Lampis, direttore generale dei musei in uscita, il 10 Aprile 2020 durante una sessione del WEBINAR | Coronavirus (COVID-19) and museums: impact, innovations and planning for post-crisis, dichiara che il museo è un’istituzione permanente, che negli ultimi anni è reputata sempre più cruciale per lo sviluppo culturale e che più di altre forme del “fare cultura” ha, recentemente, evidenziato un impegno planetario rivolto all’adattamento ai rapidi mutamenti della società contemporanea, spostando, in estrema sintesi, le attenzioni del museo ‘dalle cose alle persone’.

Lampis scomoda la definizione che ritroviamo in tutti i manuali e libri di museologia ma l’accompagna con riflessioni nuove e pertinenti al cambiamento della nostra società odierna.

“Il museo è un’istituzione permanente, senza fini di lucro, aperta al pubblico, al servizio della società e del suo sviluppo, che compie ricerche, acquisisce, conserva e, soprattutto, espone le testimonianze dell’umanità e del suo ambiente a fini di studio, educazione e diletto”.

Così si legge nella proposizione dell’ICOM (International Council Of Museums) risalente al 1951, che verrà sostituita prima nell’Assemblea a Seul (2004), poi approvata nell’ambito della ventiduesima General Assembly di ICOM a Vienna, il 24 agosto 2007.

Si riporta la più recente definizione di museo:

“Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto”.

Tenuto conto che l’esistenza di un museo sia basata sull’acquisizione di testimonianze aventi valore di civiltà (secondo la definizione della Commissione Franceschini), in ordine di priorità appaiono la tutela e la conservazione che devono necessariamente andare di pari passo con la comunicazione.

Al riconoscimento dell’autorevolezza della comunicazione come alleata della promozione culturale, Ludovico Solima dedica pagine molto interessanti nella collana Quaderni della valorizzazione-1, Il museo in ascolto. Nuove strategie di comunicazione per i musei statali.

Si sottolinea l’importanza che negli ultimi anni le strategie comunicative hanno ricoperto in ambito di perseguimento di obiettivi, svolgimento di funzioni e trasmissione di messaggi. Sempre più le norme italiane sui musei stanno avvertendo l’esigenza di sottolineare la necessità di offrire al visitatore “effettive esperienze di conoscenza”. Tali esperienze per lo più non comprese urtano un modello museale stagnante nelle sue definizioni e nei suoi giochi di sistema, che indossa le vesti di un promotore di verità assolute e consolidate nel tempo, che sovvertono i nuovi dialoghi.

Rick West, presidente di un celebre museo di Los Angeles, l’Autry Museum of the American West, incarna esattamente lo spirito controverso in seno all’ICOM: da un lato propone l’idea che il museo debba essere un luogo di conservazione di collezioni a scopo culturale e didattico e anche un’affascinante meta turistica, dall’altro chiede ai musei di essere attori impegnati verso una direzione precisa che vada molto oltre la semplice conservazione di oggetti, opere e manufatti e che parli, ad esempio, di “giustizia sociale”, di  “uguaglianza mondiale”, di “benessere planetario”.

François Mairesse, museologo di origine belga e figura di spicco della museologia soprattutto in Francia, ha dato le sue dimissioni dalla commissione nel mese di giugno del 2019.

The Art Newspaper riporta le ragioni: Mairesse crede che la definizione di museo che si cera di proporre sia un manifesto politico, «un’affermazione di valori oggi alla moda», ed è anche «decisamente troppo complicata». Mairesse abbandona la nave.

In attesa che il coro polifonico del Commitee proponga una nuova definizione di Museo, interroghiamo il Museo stesso, partendo dal contenuto, arrivando al contenitore per poterne comprendere le potenzialità e definirne gli obiettivi di trasmissione del valore da comunicare.

È necessario che le istituzioni museali creino valore, e comunichino tale valore. Per farlo non si può non essere al passo con i tempi. Parrebbe che in parecchi abbiano compreso quanto il tempo corra veloce e come il mondo sempre più incorniciato in piattaforme digitali stia ridefinendo il proprio status, la propria identità.

Numerose sono state le campagne social dagli hashtag più divertenti e popolari lanciate dal MIBACT. Le realtà museali in possesso di social media account vi hanno partecipato, e hanno riscontrato un notevole successo che ha avvicinato anche i giovanissimi alle opere d’arte.

Ci si pone di fonte a nuovi punti di partenza: linguaggi molteplici, molteplici pubblici, maggiori prospettive.

Siamo nell’epoca di un nuovo umanesimo, un umanesimo digitale. L’apporto del digitale dovrà essere riconsiderato in una revisione di conti, nella riformulazione del museo in termini epistemologici. Per poter soddisfare diversi bisogni, è necessario che il museo diventi agile e accessibile, non solo in termini fisici ma anche e soprattutto in quelli cognitivi.

L’ingresso della tecnologia dovrà essere però affiancato da uno studio profondo per la creazione di contenuti di spessore, che possano creare conoscenza senza per questo svilire o sminuire il protagonista interno al museo che resta l’opera d’arte.

La creazione di conoscenza e di conseguenza di esperienza è l’anello mancante alla catena di connessione che lega l’opera al visitatore, dalle cose alle persone, come sottolineava Lampis.

Propongo a tal proposito i dati emersi da una rilevazione online sul pubblico dei musei condotta dalla Direzione generale Musei del Ministero per i beni culturali con il supporto scientifico (pro bono) di Annalisa Cicerchia e Ludovico Solima e con la collaborazione di Simona Staffieri. (i dati secondo la ricostruzione di Ag | Cult). 

Quasi l’80% per cento dei visitatori dei musei sarebbe interessato a disporre di una Card annuale per poter visitare tutti i 452 musei, aree archeologiche e monumenti statali d’Italia. Tra le persone di età 25-34 si arriva all’88,6% dei consensi, tra i più giovani (14-24 anni) all’84,8%.

Un altro elemento significativo è che oltre i due terzi degli intervistati (il 67%) sarebbero disponibili a contribuire, con una donazione, anche piccola (circa 10 euro), a favore di un museo particolarmente significativo. Rimanendo nell’ambito economico, emerge anche che il costo del biglietto non rappresenta una barriera, anzi per alcuni intervistati potrebbe anche aumentare, perché talvolta non coerente con quanto è possibile ammirare.

Spunti interessanti si annotano anche sul fronte del digitale. Per la maggior parte degli intervistati, i musei devono continuare anche in futuro a produrre nuovi contenuti digitali (così come è stato fatto durante il lockdown) anche se il 65,5% del pubblico intervistato ritiene che una “visita online” non sostituisce la visita di persona di un museo.

È certo che l’emozione trasmessa da una persona non può essere sostituita da un contenuto digitale ma può soddisfare un piacere visivo, uditivo creando semplicemente una conoscenza sotto una diversa forma, altrettanto studiata, e ricercata.

L’una offerta non può e non deve annullare l’altra.

Entrambe sono equamente oggetto di studio e riflessioni per comprenderne il potenziale comunicativo. In che modo si può recuperare il contatto fisico oltre che cognitivo con l’ambiente museo?

La DG Musei durante la Fase 1 del lockdown ha utilizzato i propri canali social per verificare lo status della relazione che intercorre tra utenti e il museo. Agli utenti è stato somministrato un questionario mediante il quale bisognava attribuire al museo una parola che potesse, secondo il loro parere, definirlo.

Il 37,4% dei visitatori associa al museo visitato la parola Tempio, e paradossalmente alla voce Insegnare 8 che sembrerebbe uno dei compiti principe dell’istituzione museo) si attesta il 7,8%.

Se poi anche lo Stupire ricopre solo il 22 %, c’è davvero da rimboccarsi le maniche e lavorare sodo.

Al via le proposte.

Il risultato finale del questionario non lascia dubbi: fa emergere l’esigenza di veicolare l’attenzione dell’istituzione museale all’ascolto e alla voce del pubblico.

Ma quale pubblico? Ormai si deve parlare di pubblici, ed è proprio per questo che l’orecchio deve essere teso e la mente sempre attiva e protesa alla creazione di contenuti ed iniziative accattivanti.

In tema di proposte volte al domani, il professore Carmel Borg e il museologo Sandro Debono, entrambi dell’Università di Malta, stanno organizzando un ciclo di conferenze via webinar, tanto di tendenza nell’ultimo periodo, che saranno online nel periodo settembre-dicembre 2020.

Si parlerà di museo del futuro e saranno interpellate sei autorevoli voci del mondo dei musei. 

Nina Simon, CEO dell’organizzazione no-profit OF/BY/FOR ALL, sottolineerà l’importanza della creazione di contenuti digitali a sostegno delle organizzazioni culturali, in modo da renderle maggiorente inclusive.

Diane Drubay, fondatrice di We Are Museums, parlerà delle nuove strategie museali. Alistair Hudson, direttore della Manchester Art Gallery e co-direttore della Asociación de Arte Útil, punterà sul potere comunicativo dell’arte con l’intento di renderla parte della quotidianità di tutti.

A seguire vi saranno gli appuntamenti con Kristin Alford, direttrice del Museo MOD di Adelaide in Australia, e Seb Chan dell’Australian Centre for the Moving Image di Melbourne. L’ultimo incontro ospiterà Kayleigh Bryant-Greenwell, a capo dei public programs dello Smithsonian American Art Museum di Washington.

Saranno di sicuro sessioni intense, ricche e stimolanti, attraverso le quali gli addetti ai lavori porranno sé stessi al centro della sperimentazione, proponendo idee e suggerimenti per stravolgere il sistema museale sul quale si discute da decenni.

È di notevole importanza che gli stessi direttori mettano in discussione il loro operato e si facciano promotori di iniziative che possano smuovere l’arcaico mondo delle lettere.

Il direttore del Museo degli Uffizi ha recentemente dichiarato in una intervista a SKY Tg24:

“i musei statali possono produrre un miliardo l’anno: vanno resi più imprenditoriali”

“Siamo già sulla buona strada”, ha detto Schmidt. “A parte la bigliettazione, infatti, ci sono ancora molte aree redditizie, come avviene di altri paesi anche in Europa: penso all’e-commerce, al licensing, al merchandising, che da noi finora esiste solo in forme più modeste. Questi servizi invece non sono contemplati dalla nostra normativa in merito, che risale in definitiva al 1992, quando al museo si vendevano al massimo guide e cartoline, e la vendita online non esisteva”.

I musei statali secondo Schmidt hanno un potenziale non pienamente espresso. Potrebbero garantire una fonte di guadagno se solo si rendessero maggiormente imprenditoriali. Di sicuro l’attenzione è posta ad un piano economico strategico, nell’ottica della considerazione del museo come volano per l’economia della cultura. Ma tale imprenditorialità, evidenziata dal direttore degli Uffizi, non si riduce ad una visione prettamente finanziaria.

Leggo nelle parole di Schmidt la volontà di realizzare un’opera di stravolgimento del sistema museo, che possa davvero uscir fuori da sé stesso e dalle radicate convinzioni, per rendersi più agile e proattivo.

Schmidt sottolinea, infatti, l’importanza della responsabilità territoriale.

“Dalla seconda guerra mondiale in poi”, argomenta Schmidt, “i territori furono depauperati di molte opere d’arte, per spostarle nei centri e spesso nei depositi dove nessuno le vede: questo segue la logica dell’ultima fase della società industriale; ma ora, nella nostra società digitale, i piccoli borghi possono diventare attrattori per un turismo virtuoso e green e dunque è arrivato il momento di riportare le ricchezze artistiche ai loro luoghi di origine”.

Un atto di riappropriazione, di identità e di ripensamento. Anche qui abbiamo il nuovo che abbraccia il vecchio. Il passato che incontra il futuro.

In poche parole troviamo riassunti gli approcci da perseguire, perché non vi è un unico percorso da seguire.

È il momento di un mutamento di paradigma, che richiederebbe l’intervento di Ercole in una ipotetica tredicesima fatica.

Quella di Schmidt è una prospettiva che sottolinea una tipologia di approccio che pensa al sistema museo calato all’interno di un complesso ingranaggio socio-economico-culturale ma è, appunto, una prospettiva.

Non basta adottare una sola linea di condotta sperando che le cose mutino in fretta.

Non c’è da focalizzarsi su aspetti individuali né si dovrebbe lavorare a compartimenti stagni: o l’accessibilità fisica al museo o l’eventuale gratuità del biglietto o la semplice proposta di attività e progetti che poi finiscono per non arrivare a tutti i pubblici.

Forse una visione utopistica la mia. Ma come recita il proverbio: “Quando sono troppi i galli a cantare non si fa mai giorno”.

Bisognerebbe stilare un elenco di responsabilità e di intenti, per stabilire priorità e specifiche funzioni, sia interne che esterne, in modo che sia ben chiara la missione delle istituzioni museali.

Che il museo, più che una definizione, tracci il suo manifesto dada, che con uno sguardo alle radici e con spirito rivoluzionario pianti nuovi e vari alberi, in modo che i frutti siano molteplici come gli aspetti su cui lavorare in parallelo e in connessione verso il cambiamento necessario alla reale e concreta valorizzazione del nostro patrimonio culturale.

Donatella Valentino

(Visited 1.096 times)
Donatella Valentino
Donatella Valentino, Storica dell’arte e operatrice culturale. Anche conosciuta come Didone, da inguaribile romantica sogna di riscattare il destino della principessa di Cartagine. Classe 1993, scrive per creare nuovi dialoghi.