Nomen omen. Dismantle: tra estetica ed etica.

Dismantle: smantellare, demolire, abbattere

Cosa cela un nome? Cosa si cela in un nome?

La questione del nome spalanca un discorso lungo e impervio, che ha agitato mani e intelligenze e che ancora non dà tregua.

I lettori non si spaventino: qui non si vuole ripercorre la storia della linguistica né si vuole elaborare un trattato di filosofia del linguaggio. Si vuole soltanto cogliere uno spunto da cui prendere le mosse per approdare in uno spazio di riflessione altro, ben distante dalle astrazioni fredde e rigorose degli studiosi della lingua.

Ma aspettino i lettori per tirare un respiro di sollievo. Ciò che segue non è meno intricato dei discorsi dei linguisti, se non altro perché ad avvicendarsi e ad intrecciarsi tra loro sono più linguaggi: il linguaggio dell’arte, che attraverso segni, forme e cromie traduce, rendendolo manifesto, l’immenso portato dell’interiorità, talmente profondo da affondare nell’ineffabile;  il linguaggio dell’architettura che nel gioco di volumi, di pieni e di vuoti dialoga, disegna e progetta lo spazio per l’abitare; il linguaggio dell’antropologia che interpreta tutti gli altri linguaggi alla luce di quel centro unico e ultimo che è l’uomo.

Ma tempo al tempo. Ritorniamo al nostro spunto.

Cosa si cela nel nome?

Una tradizione ben consolidata – firmata da esperti autorevoli e supportata da enormi moli di carta e di inchiostro – afferma che il nome è un segno: il nome designa qualcosa, la indica e la perimetra, ne stabilisce i confini.

A questa tradizione, se ne affianca un’altra la cui autorevolezza non ha volti ma è piuttosto sancita dalla forza della vulgata e dal suo potere di radicarsi nel detto. Insignita certo del suo antico tempo, questa tradizione dice: nomen omen.

Nome come presagio, nome come destino, nome come sconfinamento dal perimetro dell’esistenza attuale, nome come proiezione futura.

Seguendo queste due suggestioni, parliamo di un nome. 

Dismantle: questo è il titolo scelto da Greg Jager per la sua serie di interventi artistici in occasione di Bitume.

[Bitume1: miscela di idrocarburi e sostanze minerali a formare gli asfalti naturali. Ma anche Bitume2: progetto di produzione artistica site-specific, spinoff del FestiWall, il Festival di Ragusa che fonde arte pubblica e archeologia industriale].

Dismantle nomina le opere dell’artista identificandole e confinandole nel loro spazio: qui si erge, grigia e imponente tra scarti di cantiere, vetri rotti, mattoni e pancali in ferro, l’ex Fabbrica Ancione. Traccia profonda del passato produttivo della città, traccia divenuta cicatrice, squarcio nel paesaggio, la fabbrica si fa testimonianza architettonica e concreta della mancata resilienza allo scorrere dei tempi, del destino di obsolescenza scaturito dell’avvento dei nuovi modelli economici, che si avvicendano e si scavalcano sul mare del sistema capitalistico.

Dismantle nomina questo smantellamento e lo fa trascinandolo in un’iperbole estetica: smantellare lo smantellato.

Come camaleonti, le opere murali si fondono con il paesaggio industriale e ne rilevano le geometrie spigolose e le tonalità d’asfalto, i grigi cenerei e ferrosi e i rossi arrugginiti.

Forme e colori vengono radicalizzate e portate all’estremo: i volumi trasfigurati in linee razionali che come segni primitivi graffiano i muri e, quasi fuori dal tempo, suggeriscono l’innata esigenza dell’uomo di controllare ed organizzare la natura attraverso la geometria.

I colori, a colpi di contagocce, vengono campionati, estratti e alienati dagli spazi, in un vortice di scomposizioni e smembramenti che non fa sconti neanche alla ruggine.

Dismantle è il nome di uno smantellamento estremo, una scarnificazione fino allo scheletro, una dissezione anatomica dello spazio di cui resta solo l’elementare, il minimale: geometrie astratte e alienate.

Sed nomen est omen.

Dismantle non nomina solo uno stato, un modo d’essere presente, non inquadra la cosa confinandola in uno spazio. Dismantle non fa esplodere solo il contesto attraverso un’iperbolica rarefazione estetica dello spazio, ma fa esplodere anche i suoi confini temporali: non solo indicazione del presente, Dismantle è un presagio futuro.

Presagio che vale qui come auspicio e che si legge tra le pieghe degli spazi, nell’esaltazione delle forme, nell’alternanza di pieni e di vuoti, nei detriti e nei rottami privi di valore ma resi protagonisti all’interno dell’ampio progetto di ricerca dell’artista.

Quest’operazione, sottile e carsica, che scava sotto la superfice, comporta uno scostamento dalla dimensione estetica a quella etica: un invito, che assume una forza quasi imperativa, a smantellare, scardinare, scarnificare per rifondare, ricostruire, ripensare.

“Smantellando” la struttura, l’artista trasforma il sito industriale in un dispositivo sensibile dalle infinite soluzioni.

Cosa si cela dietro il nome? Cosa nomina Dismantle?

Dismantle nomina un’ermeneutica aperta, l’esortazione ad un esercizio interpretativo, pubblico e collettivo, capace di immaginare e prospettare futuri possibili, di elaborare altri spazi e altre forme, abiti a misura di una nuova e rinnovata umanità.

«Dismantle non è semplicemente un nome che ho scelto per sottolineare il fascino della decadenza, rappresenta per me un approccio etico all’arte: l’idea di smantellare, decostruire, scarnificare è presente in tutta la mia pratica ed è con questo spirito che mi sono relazionato con il maestoso sito archeologico industriale dell’ex A. Ancione.

Nella mia ricerca artistica sono presenti le tracce dell’antropizzazione: paesaggi urbani, grandi strutture architettoniche, ponti, cave, rappresentano alterazioni degli equilibri naturali che hanno portato l’uomo a fronteggiare enormi catastrofi. Una visione artistica che vuole mettere in discussione gli attuali modelli economici, sociali e politici ed esplorare futuri possibili. Tutte le mie opere mettono in relazione arte e architettura. Sono delle scatole aperte: riflessioni di carattere antropologico che vogliono lasciare lo spettatore libero di poterle interpretare senza alcun vincolo».

Oriana Zippa

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Oriana Zippa
Classe ’94, invecchiata in botte. Filosofa di formazione, ha il vizio di parlare heideggerese. Strenua paladina dei congiuntivi di giorno, compionessa olimpica di maratona su Netflix di notte. Nonostante si sia convertita al tofu e al seitan, pratica ancora cannibalismo libresco. Argonauta del postmoderno ed esploratrice di ipotassi, le piace perdersi nei labirinti dei linguaggi e delle loro possibili combinazioni.