L’ossessione per il controllo ci restituisce l’illusione di essere eterni
Detergere, pulire, coprire sono gli stratagemmi messi in atto dalla società occidentale contemporanea per tentare di cancellare, o meglio ignorare, ogni forma di caducità propria della vita stessa, destinata – tanto inevitabilmente quanto naturalmente – a finire. Abbiamo bisogno di nascondere alla nostra vista lo scorrere del tempo e i suoi effetti sul reale che ci circonda, così da poter serenamente continuare a vivere nell’illusione che la morte non sia l’unica conseguenza possibile alla vita. Le muffe sulle pareti, le rughe sul viso, ogni deformazione indotta dallo scorrere del tempo deve essere eliminata così da poterci ritagliare una parentesi illusoria di eternità. Allo stesso modo anche i ricordi, labili, sfuggenti e a volte dolorosi, vengono ripuliti, reinterpretati, corretti in modo da sfuggire alla dimensione del tempo passato e entrare in una dimensione ideale, atemporale.
LOSING CONTROL, la prima personale dell’artista romano Giulio Bensasson a cura di Francesca Ceccherini presso la Fondazione Pastificio Cerere, riflette su questa nostra ossessione per il controllo e sulla necessità di superarla. La mostra si articola in due installazioni site specific realizzate una negli spazi del silos e l’altra nel sotterraneo del mulino dell’antico Pastificio.
Losing Control #1, realizzata nello Spazio Molini, dialoga con i sotterranei del mulino in cui originariamente veniva macinata la semola. Si tratta di un ambiente che trasuda lo scorrere del tempo e in maniera incontrollata continua a trasformarsi: le muffe, i calcinacci, la polvere costituiscono l’identità di questo luogo che ha deciso di non opporsi al tempo, ma di farselo amico per arrendersi a un costante quanto inevitabile deterioramento.
Bensasson installa in questi spazi tre volumi scultorei costruiti attraverso una composizione di piastrelle realizzate a mano con la tecnica del calco. Le piastrelle bianche, nitide, luminose, maniacalmente pulite compongono superfici quasi surreali, presenze delicate e stranianti in totale contrapposizione con le pareti ammuffite e umide dei locali. Scendendo le scale si incontra subito un lungo e stretto corridoio. Le pareti e il soffitto sono fatiscenti. In fondo al corridoio si staglia una parete di piastrelle: bianca e illuminata, sembra una visione, quasi una promessa. In un secondo ambiente, più spazioso, una stretta parete illuminata che va da pavimento a soffitto sembra appoggiata alla parete di fondo. Sulla sua superficie un piccolo indizio non visibile da lontano e non visibile da subito: una mosca vera ma morta, simbolo della caducità per eccellenza è apposta su una piastrella a ricordarci che oltre questa illusione, oltre questa parete, c’è ben altro. Aggirando la parete, uno stretto passaggio introduce in un terzo ambiente, una piccola sala alta e stretta al centro della quale Bensasson ha costruito un alto pilastro, un monolite illuminato dal basso e coperto anch’esso da piastrelle. Si potrebbe parlare di whiteobject, opere surrealmente immuni ai cambiamenti esterni e allo scorrere del tempo e che ci restituiscono un senso illusorio di controllo, pulizia, astrazione dal tempo. La dissonanza, tanto formale quanto simbolica, di queste installazioni è accentuata dalla presenza di un’opera sonora, progettata in collaborazione con il sound artist Filippo Lilli, e da una scultura olfattiva. Un suono profondo, senza ritmo, composto dalla registrazione dei ronzii delle mostre ci respinge e allo stesso tempo è tanto gutturale da riuscire a toccarci nell’intimo; un invadente profumo di talco maschera, senza riuscirci, l’odore del tempo.
Losing Control #2 inverte il paradigma della prima installazione. Ci si trova ora nell’ex magazzino del grano, un’articolazione di ambienti ristrutturati, puliti, nuovi: un whitecube in cui Bensasson interviene presentando una serie di diapositive ritrovate in un vecchio studio romano e che riportano ogni traccia che il tempo ha disegnato sulla loro superficie. Queste diapositive fanno parte dell’archivio personale dell’artista chiamato Non so dove, non so quando (2016) che raccoglie 583 pellicole, vanitas del tempo presente, nature morte richiamate a nuova vita. Se gli ambienti, in questo caso, si sono sottratti volontariamente allo scorrere del tempo, le immagini messe in mostra, un tempo raffiguranti memorie personali, sono oggi l’esito incessante di muffe e funghi che raccontano il lavoro e la memoria del tempo che qui ha assunto ogni controllo e ridisegna paesaggi di colori, forme astratte abitate da organismi fluorescenti. Come la Canestra di frutta di Caravaggio, anche queste diapositive assurgono al concetto allegorico della precarietà dell’esistenza umana e celebrano l’imperfezione poetica della natura. Come la memoria umana tende inconsapevolmente a modificare un ricordo in modo da poterlo idealizzare, così le muffe ridisegnano nuove e personali storie sugli acidi delle pellicole.
Anche in questo caso l’installazione si articola in tre differenti spazi: nella prima sala un ritratto di donna è quasi cancellato da un’impronta digitale e dai ridisegni di muffa e umidità. Una seconda sala presenta una serie di lettori vintage di diapositive, che obbligano l’occhio dello spettatore a instaurare un rapporto intimo con i segni del tempo. La terza sala, la più grande, presenta un unico ingrandimento di una diapositiva retroilluminata, disposta sulla parete di fondo della sala, quasi a simboleggiare un altare. La luce emessa da questo universo fluorescente cattura ogni parete bianca della sala: anche in questo caso non ci si può sottrarre alla perdita del controllo.
Mentre Losing Control #1 mette in luce i meccanismi psicotici tipici della società occidentale legati alla mania ossessiva di controllo e alla necessità di eliminare ogni traccia di caducità dalla propria esistenza, in Losing Control #2 la perdita del controllo, qui sotto il dominio del tempo innesca “un processo generativo che simulatamente distrugge e crea, cancella e compone nuovi paesaggi di senso”. La caducità e la transitorietà dei fenomeni sono di certo innegabili, ma ciò non può, non deve sminuire il valore stesso della bellezza.
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