Ibridazioni rischiose: la sfida di Contemporary Cluster a Palazzo Brancaccio

Un dialogo prospettico con Giacomo Guidi

Roma, via Merulana. Palazzo Brancaccio, che fino a qualche tempo fa ospitava il Museo Nazionale d’Arte Orientale (gli addetti ai lavori lo ricordano per l’acronimo MAO – più orientale di così …), ha riaperto da settembre grazie a un nuovo polo culturale interdisciplinare: Contemporary Cluster, nelle parole del suo stesso fondatore “scommessa, esperimento, azzardo di contaminazioni artistiche”.

“Lavorare sul contemporaneo significa vivere nel presente e osservarlo, incanalarlo, ordinarlo, creare un contesto in cui la fenomenologia del presente – quindi l’arte – possa compiere la propria missione: apparire”. Così Giacomo Guidi, fondatore e curatore di Contemporary Cluster, declina il lavoro di un direttore artistico e curatore d’arte contemporanea. Si tratta di esporre il nostro tempo senza darne una lettura critica a priori. La critica, nella visione di Guidi, riguarda il passato; il presente si può soltanto mettere in luce e viverlo, senza la pretesa anacronistica di formalizzarlo.

La questione di fondo è mostrare l’urgenza espressiva dell’artista, ‘condannato’ a conquistarsi la libertà attraverso le proprie opere. Qui entra in gioco il curatore, cui tocca il compito di rendere visibile ed esplicita questa forma di libertà, che risulta paritaria all’urgenza e per questo motivo è renitente a ogni possibile tassonomia. Sarà il tempo a generare valore. “Questo è il mio lavoro: rendere visibile l’esito di una libertà che nasce da una possibilità; che è il lavoro dell’artista. L’arte è il tavolo dell’impossibile, così il mio lavoro è rendere possibile ciò che prima non lo era”.

Credit Guido Gazzilli

Da questa prospettiva l’artista senza curatore rischierebbe l’invisibilità? “Il curatore non è strettamente necessario all’artista, ma diventa propedeutico alla sua libertà. Senza di me l’artista esiste comunque, con me può mettere in atto un processo che non è più fine a sé stesso”. Il curatore è dunque un traduttore, una sorta di tramite fra la visione dell’artista e la realtà della comunità contemporanea. “È la missione di agire sul presente e incanalarlo verso il futuro: una volta esposto, il presente diventa passato e pertanto soggetto alla critica”.

Da questa visione sembra affiorare il matador di Picasso, che come l’artista affronta il suo nemico (la tela come superficie virginale va squarciata dal pennello-estoque). Il curatore, così, costruisce le condizioni e fornisce l’impulso che permette al torero di attaccare il toro, infrangendo la dimensione tra visibile e invisibile, potenziale e potenza, impasse e azione. Quando l’artista non crea, il poeta non scrive, il musicista non compone, è necessario un impulso: “far capire che c’è bisogno della sua urgenza; renderla metodo è il mio lavoro”.

L’opera compie in questo modo la propria apparizione. Il luogo della sua epifania è importante? Un luogo è fatto dalle persone che interagiscono creando una sorta di circolarità di riflesso tra il loro sentire culturale, il loro atteggiamento critico, e il luogo stesso. In questo senso lo spazio è un’emanazione, un prolungamento, una protesi. Permette a un operatore culturale di dare strumenti alla libertà creativa. Parlando di sedi espositive (musei, fondazioni, gallerie) si tende a depersonalizzare lo spazio, gettando una percezione di vuoto assoluto su quella che invece è l’anima del luogo, che così diventa un contenitore algido con degli oggetti, ma senza visione d’insieme. Al contrario, ogni tanto lo spazio viene iperpersonalizzato da parte di chi lo gestisce, piegandone l’essenza di fondo a un eccesso curatoriale.

Allestire uno spazio è un lavoro di ricerca: non c’è una linea univoca e sempre valida. “Personalmente, mi pongo un altro interrogativo, che riempie la mia quotidianità: che cos’è importante far vedere oggi? Su che cosa posso basare le mie scelte? Ecco il mio lavoro, la mia ricerca: sulla base di quello che sto facendo, capire su che cosa accendere la luce per renderla visibile”. In questo modo lo spazio espositivo assume una forte e marcata connotazione psicologica, che deve essere in sintonia con l’artista, in modo da potergli permettere la più ibera espressione, e diventarne l’habitat. “Il mio impegno è creare le condizioni di stimolo affinché l’artista abbia il coraggio di intaccare una superficie solo apparentemente bianca, sia essa una tela, un pentagramma, un foglio, un blocco di cera o di creta”. La verginità, il biancore, il vuoto dello spazio sono solo apparenza: l’accumularsi delle esperienze precedenti definisce la memoria, e quindi l’essenza di uno spazio, per sempre.

Mostra di Sara Ricciardi – Semina, Courtesy di Serena Eller

Dunque, che cos’è l’arte? Nonostante in tanti ci abbiano provato, non può essere razionalizzata. I suoi processi sono inafferrabili, dobbiamo accettarne la natura indefinibile, non già incomprensibile. “Capisci che sta succedendo qualcosa ma non puoi definirla, quello è il momento magico”. L’arte è fuga dalla dimensione mortale, impulso vitale che si fa forma per consegnarsi all’eternità. L’atteggiamento dell’artista è “non voler morire, voler lavorare sempre su una condizione che non appartiene all’umano, rendersi immortale”. L’arte è amore, rapporto con l’altro, dare e ricevere. Davanti a un’opera d’arte nessuno può anticipare quale reazione emotiva sarà scatenata, e difficilmente la si potrà decifrare risalendo meccanicamente ai motivi, al pathos che rivela il personale nell’universale. La pulsione provocata dall’arte è imperscrutabile, ma va accettata nella sua dinamica.

L’arte è relazione. “In una stanza buia l’opera d’arte perde la propria missione”. Come tra amanti, vuole vedere riflessa e condivisa la propria carica emotiva. “È un circuito che ci restituisce, traducendo noi stessi, il riflesso di quello che abbiamo dentro”. Non è possibile, e non importa decifrare le motivazioni che spingono l’artista. Quello che conta è che l’opera sia in grado di trasmettere un’emozione profonda. Meglio di riflettere un’emozione profonda che è già dentro di noi e che l’opera traduce in nuove forme spostando la percezione di noi stessi.

L’arte è Giuda, come diceva Bonito Oliva “l’arte è il grande traditore”. Vero, l’arte è come neve al sole. In realtà l’arte rimane, ciò che va via velocemente è l’immagine che ci se ne fa. È il tradimento di un patto. Gli impulsi che l’arte genera si sedimentano e diventano atavici: trovano posto nella parte più nascosta e profonda dell’io, e conducono a una conoscenza progressiva di sé stessi. Questa stratificazione diventa lo schermo della realtà: “Non potrai più vedere le cose allo stesso modo, è una condanna a vedere, a colmare una mancanza”.

Il curatore che agisce da tramite fra due urgenze rischia di mettere da parte la propria sfera personale. “Credo di essere fortunato: ho trasformato la mia passione, la mia fiamma in lavoro. Lavoro per gli altri e sugli altri, finisco per dimenticare me stesso. Da una parte traduco un’urgenza, dall’altra incoraggio la lettura; sono condannato a essere questo, sono libero di essere questo. È un modo per essere me stesso, per accettare le mie complessità e metterle al servizio di quello che so fare. Questa non può non essere la mia vita, ho deciso così. Non replico modalità di altri, semplicemente seguo la mia visione”.

Mostra di Sara Ricciardi – Semina, Courtesy di Serena Eller

Contemporary Cluster è un polo culturale aperto all’ibridazione tra design architettura, fotografia, visual art, sound design e fashion. Il sistema dell’arte spesso segue le convezioni mostrandosi renitente ad aprirsi al nuovo e alla contaminazione. La sfida rischia di diventare uno scontro, ma è tempo di scardinare i compartimenti stagni he ne hanno segregato le diverse aree. La pandemia non ha fatto altro che mettere in evidenza il bisogno di rigenerazione del sistema culturale. Palazzo Brancaccio facilita e incoraggia le ibridazioni, è una costante ricerca, una promessa di rinascita. “L’arte non vuole aprirsi perché ha dei ruoli di potere, come tutti gli organismi che hanno degli equilibri e delle figure più importanti di altre che si affermano”.

Comunicare potrebbe far emergere elementi di fragilità. Chi detiene ruoli apicali è riluttante a entrare in contatto con altri settori, per paura di perdere peso e importanza. È così nell’arte e in tutti gli altri campi. “Mi prendo il rischio di attaccare la spina, di accendere la luce. Non posso sapere cosa succede, ma la sfida vale il rischio”. Nathalie Nothomb, scrittrice francese, parla dello sguardo come scelta: se decido di vedere una cosa si suppone che abbia deciso di non vedere altro, è evidente che lo sguardo è una scelta. “Preferisco rendere visibile tutto. Poi la critica la fanno gli altri”.

La questione è cruciale, e tuttora irrisolta: l’arte può vivere all’interno di convenzioni? “Tutto è mutevole, e pertanto non standardizzabile. Un conflitto non può essere appagante. Il mio lavoro è una ricerca continua, non può sottomettersi alla convenzione. Ma non è necessario impugnare la bandiera dell’anarchia”. Chi visita una mostra e non trova le didascalie finisce per andare in crisi, pur tenendo in mano il comunicato stampa: la convenzione genera distorsioni notevoli. “Combatto questo atteggiamento con il fare”.

Un muro di parole può essere confortante per i visitatori di una mostra, che si illudono di riceverne i giusti occhiali per comprendere ciò che vedono. Le didascalie danno la sensazione di poter capire, anche se come capita spesso quasi nessuno le legge. È un atteggiamento superficiale, che basta per offrire una finta rassicurazione. “Lì c’è l’inganno: le mostre non vanno viste, vanno comprese”.

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Alessandra Pelucchi
Architetto per formazione, europrogettista per professione e sommelier per passione. Innamorata dell’Italia per le sue mille diversità, di Roma perché è come un libro con pagine infinite e della pasta al pomodoro, perché spesso le cose più semplici sono le cose più belle. Inguaribilmente curiosa, come fanno i bambini non smette di chiedersi il perché di ogni cosa. Inguaribilmente determinata, come fanno gli adulti si incammina per tante strade.