Il viaggio su pedali è parallelo a quello che fai con la testa.

Intervista allo scrittore ciclista Giacomo Pellizzari.

Les 7 Majeurs, i sette maggiori, sono sette passi nelle Alpi Marittime, in quel peculiare luogo a cavallo tra Italia e Francia denominato Occitania. In questo non-luogo i ciclisti più impavidi possono mettere alla prova sé stessi: la sfida è calcare tutti i sette passi in un tempo massimo di quarantotto ore. Chi ci riesce entra di diritto nella Confrérie des 7 Majeurs, quasi un ordine monastico, a testimoniare la grande trasformazione spirituale in cui ci si imbatte affrontando i sette passi. Di recente ci è riuscito Giacomo Pellizzari, copywriter, giornalista, scrittore e appassionato di ciclismo, che ha pubblicato la sua esperienza in un libro, edito da Enrico Damiani Editore, che esce proprio oggi. Ne parliamo con lui, in un’interessante discussione che più che il racconto di un’esperienza ciclistica è il racconto di un differente approccio verso sé stessi e la natura.

Damiano Fantuz: Ciao Giacomo, oggi esce il tuo libro Tornanti e altri incantesimi. Vuoi presentarlo brevemente a /culture.future/ e ai suoi lettori?

Giacomo Pellizzari: Mi fa piacere parlarne con voi, perché non è il solito libro di ciclismo. Ha un aspetto extra ciclistico che è il suo fil rouge. La bicicletta è l’espediente per una riflessione interiore ed esistenziale. È il racconto di un viaggio di quarantotto ore in cui ho scalato i sette colli maggiori. Al di là dell’impresa sportiva, lunga 360 km e con un dislivello totale di 12000 m, le sette montagne hanno rappresentato un viaggio di formazione “fuori tempo massimo”, anche se ho quarantotto anni. In realtà non esiste un limite anagrafico, il viaggio ti cambia dentro, in ogni caso. Lo cominci che sei una persona e lo finisci che sei un’altra.

© Giacomo Pellizzari

D.F.: Nel libro racconti che hai sentito parlare per la prima volta dei 7 Majeurs durante il lockdown. Pensi che quel particolare periodo ti abbia in qualche modo spronato nel decidere di prendere parte a quest’impresa?

G.P.: Assolutamente sì. Di solito le mie “imprese” erano i gran fondo, esperienze più amatoriali, in giornata, puramente sportive e con scarsi risultati. Più agonistiche e con una dimensione sociale, spesso insieme agli amici. In realtà sono eventi di massa più simili a un concerto rock. Con il lockdown ho invece voluto fare una cosa più intimista, in una dimensione di solitudine (nonostante fossimo in due) e di riflessione interiore, quasi come se fosse una seduta psicanalitica. Affrontando i sette passi si passano momenti di grande fatica, gioia e sconforto, esplori le tue emozioni e fai una riflessione su te stesso. Quella fatica assume un valore profondo. Ho scoperto la bici come mezzo di trasporto in senso lato del termine. Il viaggio sui pedali è parallelo a quello che fai con la testa.

D.F.: Nel libro scrivi: «Si sceglie di andare in bicicletta verso l’alto per cercare qualcosa che evidentemente più in basso non si trova. O almeno, io ho iniziato per questo motivo.» Come si esce cambiati, dopo un’impresa di questo tipo?

G.P.: Mi piacciono le salite oltre i 2000 m di altitudine. Sono come gli ottomila per gli alpinisti. Sono una soglia simbolica, verso un mondo più selvaggio e “sturm und drang”. È l’idea di salire verso l’alto da un fondovalle anonimo, ancora con i capannoni industriali, per poi arrivare a un posto quasi lunare, che non ti aspettavi di trovare. È una forma di ascesi, uno sport nello sport. La bici in salita è un altro sport rispetto alla bici. I sette maggiori mi hanno cambiato perché sono stati il mio primo viaggio in bicicletta molto importante. Una delle cose più belle è la borsa: devi portare solo l’essenziale, lasciare il superfluo. È un’esperienza di autosufficienza, una rinuncia a ciò che non è necessario, diversa da quello che fai tutti i giorni. E poi, quel viaggio l’hai fatto solo tu: la bici è parte di te, con lei arrivi dappertutto, anche nel posto dove dormirai. E nonostante tu abbia solo l’essenziale, ti sembra di poter fare tutto. È un’esperienza formativa, anche in relazione all’epoca che stiamo vivendo.

© Giacomo Pellizzari

D.F.: Affrontare i 7 Majeurs è stata anche un’occasione per conoscere la cultura e le comunità locali di questo territorio tra Italia e Francia. Senza rivelare troppo del libro, che cosa ti ha colpito di più? Che cosa ti sei portato a casa da quella terra?

G.P.: Non sapevo molto dell’Occitania. È un posto meraviglioso, selvaggio, non contaminato, fermo a decenni fa. C’è un grande parco naturale, enorme, ricchissimo di biodiversità. Ma, tra le altre cose, mi è piaciuta l’idea di pedalare in una zona che non c’è. Lì è come se i confini non esistessero; gli animali stessi li attraversano autonomamente, andavano dove volevano loro. Vedevi maiali con alle orecchie il marchio francese in terra italiana e viceversa. Nessuno li andava a riprendere, perché in quest’area tutti sono liberi di andare dove vogliono. Anche noi, lungo il nostro percorso, siamo passati da un confine all’altro ed è stato molto simbolico, come se fossimo in un posto sovranazionale e in un’utopia naturalistica. E con la bici è stato anche il modo migliore per fare questa esperienza.

D.F.: Secondo te il ciclismo che cosa può dare di più al turismo “tradizionale”?

G.P.: Velocità e, come dicevo prima, autosufficienza. La bici ha un punto di vista particolare sulla realtà, si assume una posizione né eretta né totalmente seduta, ha una velocità particolare, non è come andare a piedi o in auto, ha un passo suo. Non c’è un abitacolo, senti i profumi, i rumori, l’aria calda e fredda, è come se tu entrassi nei luoghi che visiti. Questo lo può fare anche chi non è disposto a fare una sfacchinata immensa, scegliendo un percorso più breve e meno impegnativo. È alla portata di tutti, ed è una delle massime esperienze di libertà e comunione con il paesaggio. Si può fare anche a piedi, ma si è molto più lenti, e difficilmente ci saranno tanti cambi di paesaggio in poche ore. La bici poi ti permette di fare meno fatica, ti dà una sensazione di totale libertà e diventa una prosecuzione naturale del proprio corpo… Aggiungo anche l’importanza della musica. Non uso cuffie quando pedalo, ma associo sempre una colonna sonora a quello che sto vedendo, suggerita dai rumori della strada, delle macchine che passano o del vento. Penso che nel pedalare ci sia qualcosa di intrinsecamente musicale.

© Giacomo Pellizzari

D.F.: La bicicletta è un mezzo che può portare a solcare posti poco frequentati dalla gente, il suo stesso ingombro garantisce una sorta di distanziamento sociale. Non credi che, rispetto ad altri sport, il ciclismo possa trarre maggior beneficio dalla situazione che stiamo ancora vivendo?

G.P.: Sì, anche perché in questi ultimi mesi la bicicletta era l’unico modo permesso per uscire dal mio comune, salvo, ovviamente, diverse circostanze (e anche qui ritorna il tema dei confini…). La bici poi permette una certa dimensione individuale, come ti dicevo. Mi fa anche impressione come, quando sono in un’uscita, mi capita di guardare il telefono un paio di volte in tutto, perché non ne sento il bisogno. Ormai, soltanto di notte ci capita di non guardarlo per così tanto tempo. La bicicletta ha sicuramente beneficiato del Covid, e infatti si sta già ripensando il modo di viaggiare, fare le vacanze, spostarsi, e io credo che nell’immediato, e non solo, sarà un mezzo sempre più utilizzato per spostarsi. E non solo per questioni ecologiche.

D.F.: Tu sei copywriter e giornalista, oltre che scrittore. Come s’incontrano il ciclismo e le tue professioni?

G.P.: La scrittura mi serve per organizzare le emozioni che ho vissuto. Ho sempre scritto fin da bambino, è sempre stato il mio modo di entrare in contatto con il mondo e di relazionarmi. Mi serve a semplificare, capire, organizzare, razionalizzare e scoprire qualcosa in più che mi era sfuggito.

© Giacomo Pellizzari

Damiano Fantuz

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