Diario Polifonico | Verba Imago

Il racconto simbolico del Diario Polifonico

La parola che rompe il silenzio – il silenzio dell’indifferenza, il silenzio del diniego, il silenzio di quel rifiuto che è, in fin dei conti, tacita accettazione di quelle forme molteplici, eclatanti o subdolamente sottili, in cui la violenza di genere si insinua e si abbatte sulla vita di molte donne.

Quindici parole, come un mantra, stampate sulle pagine di un diario aperto, che mettono nero su bianco ciò che ogni donna è e può essere: consapevole della propria dignità, della propria indipendenza, della propria libertà. E poi, una parola che afferma, come un fermo e inaggirabile imperativo, ciò che ogni donna non è e non deve essere: un’altrui proprietà.

È così che Chiara Amici, giovane artista dell’Accademia di Belle Arti di Roma, fa sentire la sua voce e si impone alla vista dei passanti: il suo “Diario Polifonico”, vincitore della call promossa da Roma Capitale in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza di genere, “Manifesti d’artista.1522-Roma per le Donne”, tappezza da fine novembre le strade la capitale.

Non sorprende che gli sguardi distratti dei passanti, quando incrociano il Manifesto, ne rimangano catturati, quasi incespicando sulla sua superfice: non trovano traccia di quei codici comunicativi aggressivi, tanto cari alle pubblicità da cartellone, con i loro colori accesi e le loro forme ammiccanti.

Solo tinte tenui e linee delicate, i tratti delle cuciture che contornano le pagine.

“Diario Polifonico” è un’opera complessa, evidenza di una sensibilità artistica che si nutre di numerose suggestioni, rintracciabili nelle due fonti di ispirazioni privilegiate della Amici: da una parte, la delicata intimità di Maria Lai, per cui il gesto della tessitura si fa meditazione solitaria, riflessione intensa e profonda sul senso della comunità, della storia e della tradizione, in cui riecheggia quell’antico legame tra tessitura, ricamo e scrittura che evoca gli albori della narrazione; dall’altra, l’esplorazione semantica di Emilio Isgrò, che con le sue “cancellature” ha indagato i confini tra scrittura e arti visive, espandendone i limiti e le possibilità e operando secondo un processo di distruzione e ricostruzione del tessuto semantico, che trova la sua consistenza solo nella reciproca interdipendenza tra comunicazione verbale e comunicazione visiva.

L’opera di Chiara Amici richiede, per essere compresa, di una mediazione: quella della riflessione che avviene nell’indugiare. È come se il manifesto chiedesse al passante: guardami, fermati, rifletti e diventa consapevole.

Sì, perché è in fondo di consapevolezza ciò di cui Diario Polifonico parla, l’autodeterminazione ciò a cui invita. Un colpo di forbice che spezza il filo della libertà.

Si tratta di quella stessa consapevolezza e della conseguente capacità di emanciparsi a cui mira l’arteterapia, tanto cara all’artista, attraverso l’attivazione un processo liberatorio e riabilitativo che utilizza il linguaggio visivo come strumento per portare ad espressioni emozioni, sentimenti e dolori e offrendo, così, un luogo dove dare una forma visibile e condivisibile ai propri vissuti.

Eppure, sebbene espresso nella forma di un diario, emblema di riservatezza e intimità, non è solo il vissuto personalissimo della giovane artista a ritagliarsi uno spazio pubblico di esistenza.

Nelle parole di Chiara Amici risuona la voce di ogni donna: un’orchestra sinfonica, una polifonia, in cui le tonalità intimistiche si uniscono alla vocazione universale. Il significato di ogni parola, preso singolarmente, sfuma nel passaggio dalla comunicazione verbale – a tratti quasi verbosa – a quella simbolica, che avviene nell’esperienza estetica complessiva a cui un’attenta ricognizione dell’opera da accesso.

Il racconto del Diario – una storia di prigionia e violenza e insieme di riscatto e di rivalsa – si distribuisce in una fitta trama simbolica che occupa le due pagine.

Sulla sinistra, il racconto che si fa invito e testimonianza di una attuale possibilità: quella che passa per l’autodeterminazione di se stesse in chiave multiforme e che acquista la sua forza incidendo sulla carta, trasfigurata in carne, le parole che nominano quel tesoro che ogni donna custodisce dentro di sé e ogni donna può esprimere nella sua esistenza.

Nell’altra permane l’elemento distruttivo: la parola TUA – allusione alla reificazione della donna, trasformata dalla e nella violenza come oggetto da possedere, assoggettare e controllare – subisce una deformazione e viene bruciata: una foga di rivalsa e di riappropriazione di sé ma anche monito e ricordo vivo della ferita che ha segnato e mutilato il destino di tante. I fili rossi che sgorgano dalla pagina sono una traccia della sofferenza e, talvolta, della mancata realizzazione del processo di emancipazione della donna ”dall’esser cosa a esser totalità individuale”. La forbice che spezza il filo, taglia il dolore, ma resti della sofferenza sconfitta e le sue tracce non possono scomparire: occorre che rimangano, come ammonimenti, affinché il passato non sia dimenticato e perché il futuro possa costituirsi come il suo più grande riscatto.

Ph credits @Antonella Fiorillo

(Visited 78 times)
Oriana Zippa
Classe ’94, invecchiata in botte. Filosofa di formazione, ha il vizio di parlare heideggerese. Strenua paladina dei congiuntivi di giorno, compionessa olimpica di maratona su Netflix di notte. Nonostante si sia convertita al tofu e al seitan, pratica ancora cannibalismo libresco. Argonauta del postmoderno ed esploratrice di ipotassi, le piace perdersi nei labirinti dei linguaggi e delle loro possibili combinazioni.