Il valore della semplicità

Wim Wenders torna nelle sale cinematografiche e lo fa con un capolavoro incentrato sulla normalità. Perfect days è un film che racconta la storia del signor Hirayama, addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Shibuya, uno dei quartieri più grandi e frequentati di Tōkyō.

Insolita come scelta di un protagonista, in molti potranno pensare, ma da quanto tempo vediamo film con storie incentrate su personaggi che sfidano sempre sé stessi, combattono una vita che dipana ostacoli su ostacoli per giungere a un finale dove finalmente si ha il riscatto della vita? È diventata una prassi compositiva: il protagonista scatena in noi la volontà di vincere, di riscattarci, di ergerci talvolta, ma così facendo sembra che le persone debbano combattere tutti i giorni per fare sì che la vita li premi.

Hirayama invece ha scelto una vita che possiamo definire semplice, con una routine diventata quasi rituale, probabilmente per dare ordine a quella che prima di questa storia non deve essere stata una vita placida. Questa sua routine viene spezzata dagli altri interpreti del film che lo scombussolano, ma portano anche momenti da ricordare, da sognare. In lui è rimasto forte un animo fanciullesco, nota cose che per chi vive nella frenesia sono dettagli di un quadro troppo grande da potersi soffermare a contemplare. Così cielo, ombre, fronde diventano elementi della propria giornata. La lentezza è un modo di vivere, in totale asincronia con chi macina parole e chilometri senza neanche sapere cosa o chi passa accanto, se pioverà o meno.

Non c’è la volontà di rivoluzionare questa vita, c’è la capacità di vedere Bellezza nelle piccole cose, nei gesti spontanei, nella musica che incontra l’anima e collega il sentire delle persone senza parlare (la colonna sonora è qualcosa di spettacolare). Hirayama fa parte di quella categoria di persone che potremmo definire gli invisibili: siamo diventati così tanto arroganti che chi fa un mestiere modesto, chi non ha pretese o aspirazioni particolari viene giudicato e compatito senza una particolare riflessione sul fatto che, se determinati lavori non fossero svolti, non ci sarebbero le basi che per noi tutti sono diventate essenziali. Anziché provare gratitudine si prova sdegno.

La grande lezione che possiamo ricavare dalla visione di “Perfect days” è che prima di emettere sentenze su chicchessia dovremmo riflettere e renderci conto che al di là delle apparenze si può celare una persona dignitosa e rispettabile, piacevole, molto più profonda e gentile di quello che uno sguardo alla sola superficie nota, capace di cogliere meraviglia in brevi lassi di tempo ed essere più ricco di qualsiasi persona che ostenti tutti i segni convenzionali del successo.

Abbiamo ancora la capacità di non fare nulla ed essere in pace? O proviamo solo smania per organizzare qualcosa, riempire i vuoti, far sì che la mente non abbia il tempo per soffermarsi e interrogarsi? Più riempiamo la nostra esistenza, più aneliamo ad accelerare, a guardare le vite altrui come modello, senza poi renderci conto delle ombre che ci sono nelle vite di tutti. Continuiamo a sollecitare lo sguardo verso l’esterno in cerca di risposte, quando a volte basterebbe avere il coraggio di chiudere gli occhi e portare lo sguardo verso la propria interiorità, per comprendere che non possiamo fare della nostra vita quella di qualcun altro: questa che abbiamo è l’unica e sola, e più ci concentriamo sull’esterno più ci perdiamo di vista. Allora, forse, dovremmo riuscire a compiere quel gesto che ci porta ad accoglierci e smettere di lottare contro noi stessi. Così potremmo trascorrere dei giorni perfetti.

di Deborah Gheller

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