Descrivere l’indescrivibile

Qualsiasi destino, per quanto lungo e complicato possa essere, consiste in realtà in un solo momento: il momento in cui l’uomo sa per sempre chi è.
Jorge Luis Borges

I sentimenti sono difficili da riconoscere, affrontare, esprimere, a volte perfino da provare, figuriamoci da definire. A chiunque (o quasi) è capitato nella vita di sentire un sentimento indescrivibile, un’indistinta ma concreta sensazione che ci lega in qualche modo a una persona, senza però capire fino a dove quel legame può arrivare. Come spesso accade, alcune lingue si dimostrano più reattive di altre nel fornire gli strumenti idiomatici per definire tali realtà. Il coreano, ad esempio, utilizza il termine in-yun per indicare qualcosa che sta a metà tra la provvidenza e il destino, per cui certe anime sono destinate a connettersi e riconnettersi più volte nel corso di più vite. Ed è proprio in questo concetto che si trova l’essenza di Past lives, opera prima della regista e sceneggiatrice sudcoreana Celine Song, al suo esordio cinematografico dopo un’apprezzata carriera teatrale.

È interessante notare come Song scelga una trama relativamente semplice (e semi-autobiografica) per raccontare la complessità emotiva. La storia di Na Young, (Greta Lee) il cui nome americano sarà Nora, e Hae Sung (Teo Yoo), due amici d’infanzia profondamente legati, si articola in tre fasi temporali: 24 anni prima a Seoul, durante gli ultimi giorni prima della migrazione della famiglia di Nora verso il Nord America; 12 anni dopo, quando Nora e Hae Sung si riconnettono brevemente su Facebook e Skype, mentre sono studenti agli opposti lati del mondo; infine, nel presente, quando Hae Sung visita New York per incontrare Nora, che è ora sposata con un americano di nome Arthur (John Magaro).

Fin dalle prime scene del film, siamo chiamati a ipotizzare gli intrecci relazionali che legano i personaggi, una domanda alla quale cercheremo di rispondere (senza riuscirci fino in fondo) per tutta la durata della pellicola. Nella scena d’apertura, Nora è seduta con due uomini al bancone di un bar newyorkese, impegnata in un’animata conversazione con uno di loro, da cui l’altro sembra escluso. L’impostazione quasi teatrale di questa sequenza iniziale, che di fatto riassume in pochi minuti i tratti essenziali del film, coinvolge lo spettatore nel ruolo di osservatore che, guardando le tre persone presenti in scena, si interroga sui legami che li uniscono.

Molto di “Past Lives” ricorda la filmografia di Richard Linklater. Come nella Before trilogy del regista statunitense, anche in questa pellicola esploriamo il non detto con una sensazione voyeuristica. I personaggi tengono conversazioni ordinarie, ma attraverso il loro linguaggio del corpo e le sottili tensioni percepiamo sentimenti che si sviluppano e si trasformano. Come spettatori, assistiamo al formarsi di qualcosa di complesso e straordinario, una meraviglia intrinseca che non viene e non può essere esplicitata a parole. In alcuni aspetti, il film richiama alla mente la delicatezza, la fragilità e l’evanescente natura dei sentimenti, così come vengono esplorati in alcune delle narrazioni cinematografiche di Sofia Coppola, prima tra tutte “Lost in Translation”.

Ed è proprio nella traduzione, o meglio, nella diversità linguistica che troviamo un altro elemento cruciale del film. Il fatto che, quando si incontrano nuovamente, Nora e Hae Sung non parlino bene le rispettive lingue (lei ricorda un po’ il coreano, lui parla un po’ inglese) e che un terzo personaggio, il compagno di Nora, non comprenda il coreano, mette in evidenza i due poli spaziali e temporali che segnano l’esistenza di Nora: da un lato, c’è un amore non espresso che è rimasto potenziale, mentre dall’’altro una forte spinta verso le proprie origini, verso una vita passata ormai perduta. Agli occhi di Nora, Hae Sung personifica questa dualità. Mentre lui rappresenta il passato, Arthur incarna il presente. Mentre la Corea rappresenta un passato nostalgico, New York simboleggia un nuovo inizio.

Anche se lo sguardo principale è quello di Nora, la figura maschile del compagno è trattata in modo sorprendente, meritando di per sé un plauso. Sarebbe stato facile renderlo geloso o preoccupato, come ci si aspetterebbe comunemente. Tuttavia, Song sfrutta l’opportunità per conferire a questo personaggio, marginale rispetto alla storia dei due protagonisti, una personalità unica. Questa personalità lo porta a fare scelte e ad assumere atteggiamenti difficili da comprendere ma che risultano affascinanti da osservare. Il modo in cui il film accoglie e non forza questa situazione è notevole.

La forza e la bellezza della pellicola risiedono proprio in questa ambiguità e complessità dei sentimenti dei protagonisti, così come nella loro ricerca interiore e nel confronto con sé stessi e con i propri desideri. Lungi dall’essere la classica storia romantica dal finale scontato e melodrammatico, il film offre una prospettiva nuova sul tema delle affinità. Ogni individuo è un percorso in evoluzione, in costante cambiamento. Quando due innamorati si incontrano per la prima volta, si scoprono reciprocamente nel momento presente. Costruire insieme il futuro risulta semplice da accettare, mentre elaborare il passato, con tutte le esperienze personali lasciate in altri luoghi o tempi, è un’impresa che molto spesso si rivela ardua.

Cosa sarebbe successo se…? È una domanda con cui tutti abbiamo fatto i conti, dipingendo con il pensiero il multiverso delle possibilità di vita che ci si aprono davanti al momento di una scelta, voluta o subita. È una domanda pericolosa, se non gestita nel modo giusto, che può portare ad intrappolarci in una gabbia di rimpianti. Ce lo chiediamo guardando vecchie foto, ce lo chiediamo ascoltando una canzone che ci fa risvegliare un ricordo. Ce lo si chiede spesso anche nel corso del film, come sarebbe andata se la storia tra Nora e Hae Sung fosse andata diversamente, se la sliding door si fosse aperta verso un’altra direzione.

Cosa avremmo fatto noi al loro posto? A poco a poco capiamo che rispondere a questa domanda non è poi così importante perché tutto quello che potrebbe essere, il finale stesso del film, si concentra nella battuta finale di Hae Sung a Nora, davanti l’Uber che lo aspetta, dopo aver fatto visita a lei e ad Arthur “Allora ci vediamo”.

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Isabella Favero
Una laurea in Traduzione a Trieste e una specializzazione in Economia della Cultura a Bologna: studiando le lingue ha capito di voler esplorare molti altri linguaggi. Grande appassionata di cinema, vorrebbe trasformare la sua vita in un film con una colonna sonora pazzesca. A volte le capita di fumare un sigaro ascoltando canzoni francesi e immaginando di essere George Sand.