MAXXI – Re:define the Boundaries

I robot sono i nuovi artefici?

Sempre così tutta la vita?
No, vi prego.
Spostiamo almeno i petali delle margherite,
mettiamoli in un campo di papaveri.
Prendiamo un corallo e facciamolo crescere
vicino a una stella alpina.

(Fabrizio Caramagna)

La barriera corallina è un sistema complesso nel quale i vari membri, differenti gli uni dagli altri, collaborano in armonia alla costruzione della grande muraglia. È a tale simbiosi che il duo berlinese Entangled Others (formato da Feileacan McCormick e Sofia Crespo) si è ispirato per creare l’opera Beneath the Neural Waves 2.0, vincitrice del primo premio “Re:Humanism – Re:define the Boundaries” curato da Daniela Cotimbo. Il progetto è composto da un diorama fisico e uno digitale. All’esposizione, ospitata al MAXXI di Roma fino al 30 maggio, è presente il primo in una teca nella quale è possibile ammirare la scultura prodotta tramite stampa 3D. A fianco vi è un QR code che rimanda a un filtro Instagram, nonché al mondo acquatico digitale (qui il link per i curiosi: https://beneaththeneuralwaves.com/). Entrambi i diorami sono stati creati estraendo modelli di barriera corallina dal mondo naturale e inserendo questi all’interno di una rete neurale che ha fornito un risultato combinatorio dei vari pattern.
«Crediamo – affermano gli artisti – sia più utile esplorare i modelli che ci fanno provare empatia, compassione e connessione con ciò che è più che umano». La comprensione emotiva istintiva che l’opera vuol mettere in moto è quella dello spettatore verso il problema dell’estinzione delle barriere coralline.

Anche l’artista catanese Mariagrazia Pontorno ha adoperato la rete neurale, affiancandola alla rete neuronale della sua mente. Con Super Hu.Fo* Voynich ha guardato all’enigmatico “Manoscritto Voynich”, un testo che al pari del “Codex Seraphinianus” non ha ancora trovato una traduzione certa. Come la stessa Pontormo ha sottolineato, tutte le interpretazioni fino ad ora date sono risultate falsate dalla soggettività del lettore. Lei stessa, fornendo le informazioni alla rete neurale della macchina, poche rispetto alla norma, ha dato una lettura personale.
La particolarità del suo intervento risiede però nell’aver ancorato il codice alla Weltanschauung del periodo di stesura, il XV secolo, tempo nel quale vigeva l’idea del non confine tra il mondo scientifico e quello magico, nel quale la Terra, il cielo e gli esseri erano tutti parte di un medesimo sistema. Nel dizionario da lei redatto la parola “pianta” ricorre oltre duemila volte, sintomo questo dell’attenzione nei riguardi del mondo naturale e del potere divino di guarigione associato alle piante officinali.

È possibile guarire i risvolti negativi dell’insediamento umano sulla Terra? La bolognese Irene Fenara ha proposto una soluzione attraverso l’intelligenza artificiale. Per Three Thousand Tigers si è servita di un algoritmo al quale ha affidato tremila immagini di tigri. L’ordito così affiorato, compensato nelle sue mancanze da colori posizionati a piacimento dalla macchina, è servito da trama per un arazzo, tessuto in India nello stato federato di Uttar Pradesh. 
L’opera pone diversi interrogativi, quali la differenza, o la non-differenza, tra l’immagine di una tigre, l’animale in carne ed ossa, e la riproduzione artistica dell’εἶδος platonico (l’essenza che trascende la realtà sensoriale).

L’immagine è, inoltre, portavoce del fenomeno della diminuzione vertiginosa del numero di tigri presenti in natura. L’arazzo ha una derivazione non solo estetica ma anche simbolica: le tremila immagini che lo compongono rispecchiano la quantità degli esemplari stimati ancora presenti in natura. Uttar Pradesh come luogo di elezione per la produzione del manufatto non sembra casuale: qui, nel novembre dell’anno scorso, la riserva Pilibhit Tiger (PTR) si è aggiudicata il primo premio internazionale “TX2” per aver raddoppiato il numero di esemplari di tigre prima della scadenza stabilita al Summit di Pietroburgo, fissata per il 2022, anno cinese della tigre.
Paradossalmente, la preservazione della tigre dall’estinzione va di pari passo con l’ampia documentazione iconografica digitale sulla specie, che diviene in tal modo una custode della memoria dell’esistenza dell’animale. La scelta del supporto dell’arazzo, in più, denuncia l’estetica modaiola di utilizzare le pelli delle tigri a mo’ di tappeto, senza dar peso alle implicazioni ecologiche di tale atto.

Una fruttuosa combinazione tra arti antiche e tecnologia all’avanguardia è presente anche in Chinese Ink dell’artista e ricercatore russo Egor Kraft. Come per Three Thousand Tigers, è stata adoperata una rete neurale, in questo caso generativa avversaria (due reti che competono partendo da una medesima base dati), nella quale sono state inserite inizialmente immagini di macchie d’inchiostro. Basandosi su tali input, l’intelligenza artificiale è in grado di generare decine di immagini al secondo, simili, ma ognuna delle quali mantiene una propria unicità, trasmesse in diretta su display particolari.

L’attenzione non è posta sulla tradizionale tecnica cinese di pittura a inchiostro, quanto sull’inchiostro stesso, vero protagonista dell’opera. Questo è parte dell’ingranaggio, in quanto refrigerante dell’hardware, nonché indagato per le sue proprietà. L’inchiostro cinese è differente da quello europeo perché i materiali di cui è composto, quali fuliggine e colla di origine animale o grafite, a contatto con la carta a grana grossa preumidificata, lo rendono molto lucente e se ne possono calibrare le sfumature con facilità. Per questa ragione Kraft ha deciso di servirsi di schermi a inchiostro elettronico che imitano l’aspetto dell’inchiostro su carta. La peculiarità di questi display è che non sono retroilluminati, ma riflettono la luce al pari della carta. Le immagini sono dunque in tal guisa non aggregati di pixel bensì di particelle che simulano molto bene la carta a grana grossa. Il fatto che questi monitor siano per lo più prodotti in terra cinese, è per l’artista un’ulteriore conferma che la disputa tra la tradizione e l’industrializzazione in tale paese è all’ordine del giorno anche se, si interroga: «si può ancora chiamare inchiostro cinese quando ogni immagine è unica nella sua autenticità algoritmica? E quando è resa attraverso i mezzi dei display a inchiostro elettronico?». 

Mutatis mutandis, la questione può esser sollevata dall’installazione The Flute-Singing dell’artista romana Carola BonfiliIl progetto mostra come un’intelligenza artificiale apprende e crea per associazione una propria narrazione partendo da testi quali La tentazione di SantAntonio di Flaubert, L’isola del dottor Moreau di Wells e Le metamorfosi di Ovidio. Il senso della nuova storia non sempre è comprensibile a noi umani.

Normale – direte voi – un computer non è in grado di scrivere un libro al pari di un umano… ma ne siete sicuri? 
Già tre anni fa, presso la mostra HUMAN+. Il futuro della nostra specie al Palazzo delle Esposizioni di Roma, rimasi stupita da True Love, un libro scritto da un computer combinando storie d’amore dei grandi classici. Alexander Prokopovic, ideatore del progetto, disse al tempo: «il nostro programma non potrà mai diventare un autore, così come PhotoShop non sarà mai Raffaello.»

Eppure qualcosa era già cambiato, se è vero che per un soffio un racconto scritto da un AI non ha vinto un premio nel 2016. Ebbene sì, The Day A Computer Writes A novel è stato tra i finalisti del Nikkei Hoshi Shinichi Literary Award, rinomato concorso giapponese di libri di fantascienza.

Il dualismo uomo-macchina è una tematica affrontata anche dall’austriaca Johanna Bruckner in Molecular Sex. Protagonista dell’installazione video è un sex robot creato da un computer mescolando le sinuose movenze di un’Ophiuroidea (comunemente chiamata stella serpentina) con i batteri Wolbachia che vivono in rapporto simbiotico con i parassiti del sistema riproduttivo scambiando elementi del genoma. Il sincretismo tra i regni umano, informatico e animale rende l’essere finale un ibrido, connaturato da una sessualità fluida.

Il riconoscimento del gender fluid è un tema ad oggi scottante, come dimostrano le reazioni provocate dalla copertina di Vogue con Harry Styles vestito da donna, oppure dalle fotografie scattate quest’anno per la Maison Valentino.
Donna Haraway, studiosa della connessione tra scienza, tecnologia e identità di genere, affermava già nel 1985 che “genere, razza e classe non possono più essere posti alla base di una fede in un’unità ‘essenziale’, dopo che si è fatto tanto per affermare la loro costituzione storica e sociale” (Manifesto cyborg, ed.Feltrinelli, 2018). Il sentimento perturbante, che scaturisce nel vedere rappresentata la non dualità, è insito nella nostra cultura occidentale, se si pensa alle amazzoni, ai centauri, a metà tra la dimensione di mostro e quella di esseri leggendari. Si tratta di quel conflitto, individuato dalla Haraway, tra “portento e malattia” che li distingue come diversi perché non classificabili in maniera univoca e per questo portatori di “rumore” all’interno di un’armonica orchestra.

Riportando il discorso alla biologia, il collettivo Umanesimo Artificiale ha posto enfasi proprio sul rumore, in tal caso maligno. ABCD1 prende il nome dall’omonimo gene che causa l’adrenoleucodistrofia, malattia degenerativa del sistema neurologico di cui è affetto un membro del gruppo. Dopo aver composto un database con le informazioni di vari pazienti, hanno tramutato in musica sequenze del DNA malato a confronto con uno sano. La dissonanza musicale è così molto più intellegibile di quanto possa risultare dalla lettura degli specifici paper di medicina.


La salvezza dalle malattie è la medicina oppure, come ritiene Ray Kurzweil, ingegnere capo di Google, è il divenire ibridi permettendo a esseri tecnologici di fondersi con noi in maniera simbiotica così «smetteremo di essere creature inermi e primitive, macchine di carne limitate nei pensieri e nell’azione dal corpo che costituisce il nostro attuale sostrato. […] Acquisiremo potere sul nostro stesso destino.» (La singolarità è vicina, ed. Apogeo, 2008). 
Una visione molto ottimistica della tecnologia! Guardiamola da un altro punto di vista: città piene di telecamere ci fanno comprendere quanto il ‘destino’ di ciascuno non sia completamente nelle sue mani. L’era dell’ ‘informatica del dominio’ è in atto: «è informazione solo quel tipo di elemento quantificabile (unità, base comune) che permette una traduzione universale e quindi uno strumentale potere illimitato» (Manifesto cyborg), perfino predittivo. In alcuni distretti di polizia in America si avviano analisi per individuare in anticipo possibili crimini in base a dati raccolti e analizzati dalle macchine. Cosa accadrà il giorno che ci affideremo troppo a questi sistemi, e l’AI darà un risultato non corretto, ‘incolpando’ così un innocente?
Eppure è noto che altre tecniche moderne assai meno sofisticate hanno già manifestato i propri limiti, come il riconoscimento facciale, non molto affinato soprattutto per volti di donne scure di pelle, come denuncia il documentario Coded Bias (ora su Netflix).

Rimettere al centro l’individuo grazie a questa tecnologia è possibile? È la domanda che si sono poste Elizabeth Bowie Christoforetti e Romy El Sayah con Body as Building. Il visitatore si posiziona dinnanzi a uno schermo e in base alla dislocazione dei punti del viso l’AI costruisce una casa ad hoc per l’utente. L’uomo come singolo torna ad “essere misura di tutte le cose”, soprattutto del proprio spazio. 


Le case d’altronde raccontano dei loro abitanti molto più di quanto siamo coscienti – e le serie TV poliziesche lo mostrano ogni giorno! (Non-) Human: The Mooving Bedsheet di Yuguang Zhang mette in luce proprio l’impossibilità di questa scissione tra l’uomo e gli oggetti di cui si contorna. Il Buddismo e lo Shintoismo (religioni a cui l’artista guarda) affermano che un dio può dimorare anche negli elementi che noi definiamo inanimati. Partendo da tali premesse, è possibile creare un mondo nel quale gli esseri umani sono presenti ma non nella loro forma tradizionale?Yuguang Zhang ha mappato i movimenti del nostro corpo mentre dorme sulle lenzuola e li ha riproposti svincolandoli dall’artefice.

L’ideatore, l’uomo, è dunque divenuto superfluo? Se così fosse bisognerebbe dedicargli una degna sepoltura, ed ecco che se ne occupa, ovviamente, un computer in Epitaphs For The Human Artist ideato dal gruppo Numero Cromatico. Davanti a gonfaloni colorati, si innalza un leggio nero portante un libro dalle parole colorate che creano una discordanza, un ‘rumore’, tra il significato e il significante  – così acceso, quasi felice – del testo. 

L’uomo-artista si autoproclama morto, ma non immortale come nel caso del manifesto mortuario di De Dominicis. Con Epitaphs For The Human Artist l’artefice riconosce che non è possibile continuare con l’antropocentrismo, ma deve evolversi per evitare di diventare “strumento dei suoi stessi strumenti.” (citazione modificata da Henry David Thoreau, “Walden”).

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Giulia Rustichelli
Sommersa da libri, scatole di ricordi e agende, Giulia vive sospesa dal 1996 tra la realtà contingente e Pemberley. Sogna di poter dipingere a fianco di J. W. Waterhouse in un cottage al confine con la Scozia gustando gelato al tè verde.