B(l)ack to Sanremo

Quello che la moda non dice

Da anni ormai il Festival di Sanremo rappresenta non solo uno dei più amati contest musicali d’Italia, ma è diventato soprattutto un palcoscenico per lanciare messaggi sociali e politici, espressi in special modo attraverso la moda. Anche se non siamo a Milano (mancano ancora una decina di giorni alla Fashion Week) la “settimana santa” di Sanremo offre un’eloquente preview della moda italiana.

Accostarla a questioni socio-politiche può sembrare a prima vista ingenuo, specialmente perché spesso la sua natura dinamica, giocosa, mutevole e sfuggente rischia di essere scambiata per banale. Quando si parla di moda e di cultura popolare, spesso è difficile non accostarle alla musica: quante volte avete indossato un certo stile solo perché viene sfoggiato da qualcuno che state ascoltando? Ciò dimostra quanto sia importante l’espressione visiva per l’identità subculturale. In altre parole, moda e musica si completano a vicenda e il messaggio inviato diventa completo, più ricco e più chiaro.

Anche se indubbiamente comunica, la moda non è un linguaggio. Ciò che si intende trasmettere non corrisponde necessariamente all’interpretazione che ne scaturisce. In alcuni casi, tuttavia, i messaggi sono espliciti e molto chiari, lasciando poco spazio a interpretazioni indesiderate.

L’esibizione di BigMama ne è un esempio. La seconda sera ha reso molto chiara la sua posizione indossando le calze con la scritta “queer revolution” e durante la serata delle cover, con la performance “Lady Marmalade”, in cui si è esibita insieme a Gaia, La Nina e Sissy, il corsetto ha dominato. Il corsetto, infatti, è un trademark di Lorenzo Seghezzi, stilista che ha collaborato con BigMama durante il Festival. L’idea alla base del lavoro di questo giovane designer riguarda principalmente la commistione tra sessualità e la distorsione degli stereotipi di genere. I corsetti disegnati da Seghezzi, infatti, sono destinati sia alle donne che agli uomini, con l’obiettivo di sentirsi a proprio agio nel proprio corpo.

La ri-contestualizzazione del corsetto risale agli anni ’70 e alla sottocultura punk: invece di essere nascosto sotto i vestiti, il corsetto diventa un soprabito (overgarment) sfidando la tendenza dominante dell’epoca, caratterizzata da forme più ampie, influenzate da un’altra sottocultura, quella hippie. I designer come Jean Paul Gaultier e Vivienne Westwood hanno poi sviluppato questo stile, rendendolo una tendenza di moda al di fuori delle sottoculture. Ad esempio, nell’opera di Gaultier, il corsetto era un simbolo della denaturalizzazione del genere, della cultura omosessuale e di una femminilità che non era più necessariamente associata alle donne. Fino ad oggi, il corsetto ha avuto diversi revival, uno dei quali all’inizio degli anni 2000, proprio durante (e probabilmente grazie a) il film Moulin Rouge, uscito nel 2001.

Il tema degli stereotipi di genere ritorna anche nella performance di Rose Villain, che insieme a Gianna Nannini ha cantato i brani “Scandalo”, “Meravigliosa creatura” e “Sei nell’anima”. Rose ha indossato un abito corto Sportmax con zirconi che, dalla metà della schiena, ha un tessuto che si allarga e si trascina sul pavimento ricordando un velo, insieme a lunghi guanti bianchi, richiamando l’immagine di una sposa. Gianna Nannini, invece, ha indossato un completo Emporio Armani, con giacca e camicia sbottonate. L’esibizione somigliava a un matrimonio, dove il genere esiste solo in superficie.

Anche se in una variante relativamente classica, ossia in gonna nera, camicia bianca e cravatta nera, firmate da Maison Valentino, Loredana Bertè ha espresso il suo sostegno alla comunità LGBTQ attraverso nastrini colorati portati come braccialetti.

Nonostante i forti messaggi socio-politici durante la serata, il pensiero comune è che gli abbinamenti siano stati poco innovativi e arditi. La maggior parte degli outfit indossati erano infatti neri. Un’opzione sicura, spesso equiparato al classicismo, all’eleganza e persino alla beatitudine, all’atteggiamento blasé, dove è difficile sbagliare. Forse non del tutto adeguato se si vuole contrastare modelli e valori consolidati. Tuttavia, l’outfit nero può anche essere inteso come un semplice sfondo per convogliare l’attenzione sul messaggio della performance. In una combinazione di Burtz Akyol, giacca nera, pantaloni e un velo nero trasparente, Ghali ha senza dubbio lasciato un messaggio forte riguardo all’identità dei cittadini di origine araba, nati e cresciuti in Italia, che viene giustamente considerata il loro Paese. Attraverso il medley intitolato “Italiano vero” che comprende “Baina” (cantata in arabo) e “Cara Italia”, Ghali parla del sogno italiano, della nuova Italia e di cosa significa essere (vero) italiano. Colpisce anche il finale dello spettacolo, che ricorda l’”Immigrant theme” di Nino Rota, dal famoso film “Il Padrino”. Se si prende in considerazione questo aspetto, si può dire che l’outfit classico e sobrio sostenga l’intero messaggio, fornendo una certa “stabilità” mentre viene ridefinendo il significato di italiano vero.

Naturalmente, a volte il nero è semplicemente nero. Una scelta in cui non si intrecciano risposte a domande socio-politiche, e questo va benissimo. Sarebbe infatti sbagliato prendere molto sul serio la moda, considerandola unicamente come veicolo di dichiarazioni. Il suo spirito, al contrario, pervade la società, inneggiando alla frivolezza libera da rigide limitazioni e significati forzati; ovviamente, ciò non significa che non possieda un certo potenziale comunicativo. Il tempo dirà se i messaggi comunicati avranno un impatto nel tessuto sociale o rimarranno nell’ambito del panem et circenses.

di Jelena Stefanovic

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